Saturday 12 December 2009

Il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario

L’art. 103, comma 1 della Costituzione stabilisce che il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della P.A. degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.La disposizione costituzionale in parola sancisce anzitutto il criterio ordinario del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (nel prosieguo del presente scritto anche denominati, rispettivamente, g.o. e g.a.)La regola generale del riparto si basa, sostanzialmente, sulla dicotomia interesse legittimo–diritto soggettivo, nonché sul c.d. principio della causa petendi che attribuisce rilevanza alla consistenza della posizione soggettiva azionata dal privato. Ad una prima approssimazione si può affermare che laddove il cittadino agisca per la tutela di un interesse legittimo la giurisdizione sia quella del giudice amministrativo, qualora voglia far valere un diritto soggettivo egli dovrà, invece, adire il tribunale ordinario.In altre parole, dunque, può dirsi che la giurisdizione del g.a. sussista ove si verta in tema di interessi legittimi, mentre si avrà la giurisdizione del g.o. per le controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi.In considerazione di quanto appena esposto appare chiaro che per l’applicazione del criterio generale del riparto di giurisdizione è necessario capire come distinguere gli interessi legittimi dai diritti soggettivi. Ebbene, il criterio oggi dominante, sia in dottrina che in giurisprudenza, trae fondamento dal binomio “cattivo uso di potere – carenza di potere”. Si sostiene che il cittadino sia titolare di un interesse legittimo nei casi di “cattivo uso del potere” da parte della Pubblica Amministrazione (come ad esempio nelle ipotesi di incompetenza relativa o di violazione di norme che attengono alle modalità di esercizio del potere), mentre rimanga titolare di un diritto soggettivo nei casi di “carenza di potere”, quando cioè la Pubblica Amministrazione agisce in mancanza di una norma attributiva del potere (c.d. carenza in astratto); si pensi, a titolo esemplificativo alla incompetenza assoluta o allo straripamento di potere. Oltre alla carenza di potere in astratto, parte della dottrina e parte della giurisprudenza hanno individuato delle ipotesi di c.d. carenza di potere in concreto ravvisabili, sostanzialmente, nei casi di mancanza di fatto dei presupposti cui la norma subordina l’esercizio del potere della P.A. (es. emanazione di un provvedimento al di fuori dei termini previsti dalla legge; adozione del provvedimento di esproprio senza la previa emanazione del decreto di pubblica utilità). Se anche la carenza di potere in concreto determini la sussistenza della giurisdizione amministrativa o meno è stata, come lo è ancora oggi, questione dibattuta.Le definizioni e le distinzioni di cui si è detto sin ora, essenziali per l’applicazione del criterio ordinario del riparto di giurisdizione tra g.a. e g.o., perdono rilevanza in riferimento alle materie - individuate dal legislatore - sottoposte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la cui cognizione comprende, in considerazione dell’inciso finale del primo comma, art 103 Cost., sia gli interessi legittimi che i diritti soggettivi.La giurisdizione esclusiva del g.a., che viene concepita come eccezione alla regola generale del riparto, trova la sua ratio nell’esigenza di creare uno “strumento” idoneo a risolvere preventivamente le questioni relative al riparto di giurisdizione in tutti quei casi in cui sia particolarmente difficile distinguere le posizioni soggettive coinvolte, perché interessi legittimi e diritti soggettivi sono strettamente connessi tra loro.Nel corso degli anni, le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. sono aumentate in maniera assai moderata sino a quando, con il d.lgs. 80/1998 (integrato dalla l. 205 del 2000) il legislatore ha devoluto “in blocco”, alla giurisdizione esclusiva del g.a., tutte le controversie in materia di servizi pubblici (art. 33), nonché quelle aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti alle stesse equiparati in materia urbanistica ed edilizia (art. 34). Con il decreto in parola, dunque, la potestà giudiziale esclusiva del giudice amministrativo veniva notevolmente ampliata, ma non del tutto legittimamente. Tanto è vero che la Corte Costituzionale, con la sentenza 204/2004, ha dichiarato incostituzionali gli artt. 33 e 34 d.lgs. 80/98, in considerazione, sostanzialmente, delle medesime ragioni. La Corte ha ribadito che il legislatore può devolvere alla giurisdizione esclusiva del g.a. solo quelle materie in cui si ravvisi una stretta connessione dei diritti soggettivi con gli interessi legittimi. Affinché una controversia tra privato e P.A., relativa a diritti soggettivi possa essere decisa da un giudice amministrativo è necessaria l’esistenza di un collegamento della lite con il pubblico potere. In altre parole occorre che il diritto soggettivo abbia sopportato una lesione per l’esplicazione di un potere amministrativo, autoritativo ed imperativo; non è sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo.Tale criterio, a giudizio della Corte, non era ravvisabile negli artt. 33 e 34 d. lgs 80/98. Il legislatore prevedendo che “tutte le controversie” in materia di pubblici servizi (art. 33) così come ”i comportamenti” della P.A. in materia urbanistica ed edilizia (art. 34) fossero devoluti alla giurisdizione esclusiva del g.a., radicava tale potestà giudiziale sul mero dato oggettivo della presenza di un interesse pubblico nelle controversie relative a quelle materie, senza minimamente considerare le situazioni soggettive coinvolte.Inoltre, la devoluzione delle materie “in blocco” prevista dalle disposizioni in commento si poneva in aperto contrasto con il dettato costituzionale dell’art 103, comma 1, in base al quale possono essere devolute solo “particolari” materie. La tecnica scelta dal legislatore del 98 (e del 2000) trasformava, in violazione della Costituzione, l’eccezione in regola.La giurisdizione esclusiva del g.a., dunque, ampliata dal d.lgs. 80/98 e dalla legge 205/2000, veniva ridisegnata e ridimensionata sostanzialmente dalla giurisprudenza della Corte costituzionale con la sentenza 204/2004.Con la stessa sentenza, seguita poi dalla 191/2006, la Corte delle leggi ha, inoltre, giudicato esente da censure di incostituzionalità l’art. 7 della l. 205/2000 nella parte in cui attribuiva al giudice amministrativo il potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto, anche in forma specifica.Veniva così riconosciuta al privato da un lato, la possibilità di ottenere dal giudice amministrativo che annullava l’atto, il risarcimento del danno cagionato dal un provvedimento illegittimo della P.A., e, dall’altro, la possibilità di ottenere il ristoro dei danni derivanti dalla lesione di un interesse legittimo pretensivo sostanziale (ad esempio l’interesse che può avere il cittadino a che la P.A. emani un determinato provvedimento, ovvero che lo emani entro un preciso termine).In merito al potere, ed ai relativi limiti, del giudice amministrativo di disporre il ristoro dei danni cagionati a privati da atti della P.A., sono intervenute di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Prendendo spunto da tre diverse controversie, rispettivamente relative all’illegittima esclusione di un candidato da un corso di dottorato (ordinanza 13 giugno 2006 n. 13659), all’illegittimo diniego di un’autorizzazione all’apertura di un esercizio commerciale (ord. 13 giugno 2006, n. 13660) ed a una procedura di occupazione illegittima (ord. 15 giugno 2006, n. 13911), la Suprema Corte ha offerto una ampia ed univoca sistemazione delle questioni tanto inerenti al riparto di giurisdizione tra g.a. e g.o. con riferimento all’azione risarcitoria, quanto alla c.d. pregiudizialità amministrativa.Le Sezioni Unite hanno anzitutto ribadito che la giurisdizione del giudice amministrativo resta delimitata dal collegamento con l’esercizio in concreto del potere amministrativo, secondo le forme tipiche previste dall’ordinamento, ciò sia nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva che nelle altre, respingendo definitivamente così la tesi in base alla quale in presenza di una autonoma azione risarcitoria, successiva all’annullamento dell’atto illegittimo ad opera del g.a., la giurisdizione spetterebbe al g.o., cui compete di regola, la cognizione sulle posizioni di diritto soggettivo.Inoltre, la Suprema Corte, con le ordinanze in commento, ha decretato la fine la c.d. pregiudizialità amministrativa.In passato il privato non poteva chiedere il risarcimento del danno, senza aver prima ottenuto l’annullamento del provvedimento illegittimo. Oggi l’azione risarcitoria volta a conseguire il ristoro dei danni derivanti dall’esercizio del potere pubblico non è più vincolata al previo annullamento dell’atto o del provvedimento lesivo. Il privato dunque potrà intraprendere una autonoma azione risarcitoria, innanzi al giudice amministrativo, anche successivamente alla decadenza dei termini previsti per l’impugnazione dell’atto illegittimo.Secondo la Corte di Cassazione ammettere la tutela risarcitoria del privato, esclusivamente in considerazione del previo annullamento dell’atto illegittimo-lesivo, anziché del solo accertamento della sua legittimità, rappresenterebbe una ingiustificata ed inaccettabile compressione della la tutela del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione.

Friday 2 October 2009

La riserva di legge in materia penale

La riserva di legge in materia penale è il principio in base al quale viene attribuita in via esclusiva al legislatore ordinario la potestà normativa in materia penale.
Tale principio, che regola dunque il sistema delle fonti normative del diritto penale nel nostro ordinamento, è accolto, a livello costituzionale, dall’art. 25 Cost. a tenore del quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso (II° comma), e nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge (III° comma). Anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione, la riserva di legge era sancita, come lo è ancora oggi a livello di legislazione ordinaria, dagli artt. 1 e 199 del codice penale.
Questione preliminare da affrontare consiste nell’individuazione della ratio della riserva di legge. In altre parole, è necessario chiedersi, innanzitutto, il motivo che ha spinto il legislatore ordinario prima, ed il legislatore costituzionale più tardi a stabilire che unica fonte del diritto penale nel nostro ordinamento fosse la legge formale, sottraendo, dunque, la competenza in tale materia al potere esecutivo.
Successivamente all’individuazione della ratio della riserva si potrà delineare l’ampiezza della sua portata; capire cioè se la riserva di cui all’art. 25 II° comma Cost. debba essere considerata una riserva di carattere assoluto o di carattere relativo. La distinzione è di fondamentale e sostanziale importanza: in caso di riserva assoluta il legislatore non potrebbe rimettere, neppure in parte, a fonti secondarie la disciplina della materia penale; se si dovesse concludere in favore della natura relativa della riserva, viceversa, il legislatore potrebbe limitarsi a disciplinare gli aspetti essenziali della materia, rinviando per gli altri a norme di rango secondario.
La migliore dottrina afferma che la ratio dell’attribuzione in via esclusiva al legislatore ordinario della potestà normativa in materia penale vada ricercata nella peculiare struttura del procedimento legislativo e nel particolare regime dell’atto legislativo.
Nell’attuale momento politico–costituzionale il procedimento legislativo, seppur con le sue inevitabili imperfezioni, appare lo strumento più adeguato a salvaguardare il bene della libertà personale, bene primario dell’individuo, di cui “si dispone” nel diritto penale. Attraverso il procedimento legislativo si consente, tra l’altro, di tutelare i diritti delle minoranze e delle forze politiche dell’opposizione che partecipano alla formazione della legge e sono poste in condizione di sindacare le scelte di criminalizzazione adottate dalla maggioranza. L’obiettivo è quello di garantire, attraverso questa dialettica, la regolamentazione più equilibrata possibile dei diritti fondamentali dei singoli.
Vi sono dei casi, tuttavia, in cui il procedimento legislativo non riesce ad assicurare la dialettica parlamentare auspicata (basti pensare all’ipotesi di una maggioranza parlamentare schiacciante). In queste ipotesi l’atto legislativo, grazie al suo particolare regime, è in grado comunque di garantire i cittadini dai possibili arbitrii del potere legislativo - che nel caso sopra prospettato altri non è che la maggioranza - attraverso il controllo da parte della Corte Costituzionale della conformità della legge ai valori ed ai beni costituzionalmente garantiti, ed il controllo di merito ad opera del referendum popolare abrogativo (art. 75 Cost.)
La riserva di cui all’art. 25 II° comma Cost., riconosce dunque, la legge come unica fonte del diritto penale nel nostro ordinamento. La legge è l’atto normativo che più di ogni altro garantisce la tutela dei i beni fondamentali dei cittadini, anche dai possibili arbitrii del legislatore, attraverso dapprima il vaglio parlamentare – delle minoranze – e successivamente attraverso il sindacato di legittimità della Corte Costituzionale e di merito ad opera del referendum abrogativo.
Se quella appena individuata è la ratio del precetto costituzionale contenuto nell’art. 25 II° comma, e se i beni protetti dalla riserva sono i beni fondamentali della persona, si deve necessariamente concludere in favore del carattere assoluto della riserva di legge. In concreto, dunque, il legislatore non potrebbe, in alcun caso, rinviare ad atti diversi dalla legge l’integrazione delle fattispecie penalmente rilevanti.
Occorre, a questo punto, individuare quali siano gli atti normativi idonei a soddisfare il carattere assoluto della riserva.
E’ evidente, in base a quanto detto sin ora, che il concetto di riserva di legge rinvia in primis alla legge ordinaria formale, e cioè all’atto normativo emanato dal Parlamento ai sensi degli artt. 70 – 74 Cost. A maggior ragione, rispetto alla legge ordinaria, può esprimere norme penali la legge costituzionale.
E’ ormai pacifico, inoltre, che anche i decreti legislativi (ex art.. 76 Cost e 77 I comma) e i decreti legge (ex art. 77 commi 2 e 3 Cost) siano ammissibili come fonti del diritto penale.
Entrambi, infatti, oltre ad avere forza e valore legge sono soggetti al sindacato di legittimità della Corte Costituzionale ed all’eventuale referendum abrogativo, soddisfacendo evidentemente a pieno la ratio della riserva di legge. Inoltre tanto i decreti legislativi, quanto i decreti legge sono sottoposti al vaglio, rispettivamente preventivo e successivo, del plenum dell’Assemblea parlamentare. Per quanto riguarda i decreti legislativi, infatti, è lo stesso Parlamento che determina i principi ed i criteri direttivi che il governo dovrà rispettare nella redazione del decreto. I decreti legge invece, che possono essere adottati solo in casi straordinari di necessità e di urgenza, devono essere convertiti in legge ordinaria entro 60 gg dalla loro pubblicazione ed in caso di mancata conversione perdono efficacia sin dall’inizio.
La dottrina è unanime, inoltre, nel negare la legittimazione delle regioni a statuire in materia penale. Gli argomenti maggiormente probanti, a sostegno di tale opinione, sono quello delle inderogabili condizioni di uguaglianza in tema di libertà personale (art. 3 Cost), nonché il divieto posto alle regioni dall’art. 120 2° e 3° comma Cost di adottare provvedimenti che ostacolino o limitino l’esercizio, da parte dei cittadini, di diritti fondamentali.
Individuata la ratio ed accertate le tipologie di atti normativi idonei a soddisfare il carattere assoluto della riserva di legge, è il momento di tracciare i limiti dell’oggetto della disciplina riservata alla potestà normativa del legislatore. Si ritiene che la legge debba specificare oltre alla fattispecie criminosa anche ogni specie di conseguenza sanzionatoria che dia concretezza alla punizione e cioè le pene principali, quelle accessorie, gli altri effetti penali della condanna, le condizioni obiettive di punibilità, le cause di esclusione della punibilità, le cause di estinzione del reato e della pena e la determinazione del tipo e dei limiti edittali della pena. Secondo una parte della dottrina non sarebbero “coperte” dalla riserva di legge le norme che prevedono le cause di giustificazione che escludono la contrarietà della condotta altrimenti penalmente rilevante, considerando tali scriminanti dei “fatti giuridici autonomi” previsti da norme di liceità dell’intero ordinamento, non strettamente penali e dunque estranee alla relativa disciplina costituzionale. Il regime della riserva assoluta si estende anche alle regole che hanno funzione modificativa o estintiva dell’illecito o dei suoi effetti giuridici. Non potrebbe essere diversamente: se i fatti costitutivi di illeciti penali e le relative conseguenze devono essere previsti da regole ordinarie, qualsiasi effetto modificativo o estintivo, del fatto o della sanzione, non può essere stabilito a mezzo di regola secondaria .Se così fosse si verrebbe ad ammettere che ciò che la legge dispone ed è garantito dalla riserva sarebbe derogabile o modificabile da norme di grado inferiore; conclusione questa inammissibile tanto in considerazione della ratio della riserva, quanto in base al principio della gerarchia delle fonti.
Stabilito che la legge debba individuare tanto la fattispecie criminale quanto ogni tipo di conseguenza sanzionatoria ad essa ricollegabile, ci si chiede se il legislatore possa, ed in caso affermativo in quali ipotesi, rinviare ad un atto normativo secondario per l’integrazione della norma penale. Ci si domanda insomma se la riserva di cui all’art. 25 Cost. debba essere necessariamente intesa in modo “rigidamente assoluto”, ovvero se sia configurabile come una riserva “tendenzialmente assoluta” o addirittura relativa, tesi, quest’ultima, che in passato è stata largamente sostenuta dalla dottrina ed anche della giurisprudenza costituzionale e che ancora oggi pone spunti di riflessione.
Con sensibilità principalmente volta all’esigenza pratica di conservare quei settori dell’ordinamento penale costituiti, precedentemente all’entrata in vigore della Costituzione, da fattispecie integrate da fonti normative secondarie e pertanto a rischio di illegittimità costituzionale a fronte di una riserva assoluta di legge, la dottrina e la Corte costituzionale hanno sostenuto, soprattutto in passato, diverse teorie favorevoli al carattere relativo della riserva. La giurisprudenza costituzionale, dopo aver, in un primo momento adottato il criterio della “presupposizione” – secondo il quale la norma secondaria cui la legge rinvia non rileverebbe quale fonte integratrice del precetto penale, bensì come mero presupposto di fatto per la sua applicabilità – si è andata consolidando con il ricorso alla teoria della sufficiente predeterminazione della fattispecie di fonte legale.
Secondo tale criterio la riserva sarebbe rispettata quando sia una legge, anche se extrapenale, a indicare, in ordine al momento precettivo della norma, con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla cui trasgressione deve seguire la sanzione, che a sua volta, dovrà necessariamente essere stabilita da una legge.
Nel rispetto di tale principio il legislatore penale può, dunque, delegare ad una fonte normativa secondaria l’integrazione e/o la specificazione di elementi di fattispecie già esaurientemente espressi dalle scelte valutative contenute nella legge (il legislatore sfrutta spesso la possibilità di operare rinvii ai regolamenti dell’esecutivo in materie particolarmente tecniche o che richiedano continui aggiornamenti). Viceversa, le leggi “non possono rimettere ad altre autorità di determinare in via normativa, a propria scelta, se sanzionare o no certe infrazioni e se sanzionarle in una misura o con certe modalità piuttosto che diversamente” (Corte Cost. sentenza 26/1966).
Strutturalmente connessa al tema dei rapporti intercorrenti tra legge penale e fonti normative secondarie, è la questione delle così dette norme penali in bianco.
La dottrina maggioritaria ritiene che norme penali in bianco siano quelle disposizioni il cui precetto, al contrario della sanzione che viene specificata, è formulato genericamente e deve essere completato da altre fonti -sublegislative- ovvero è del tutto assente e contenuto in altre norme di grado pari o inferiore.
Ora, se il precetto, o la specificazione dello stesso, è contenuto in regole già entrate in vigore al momento in cui è prodotta la disposizione penale in bianco che ricollega la sanzione in essa contenuta alla violazione di quelle regole, il principio della riserva di legge è rispettato. In questo caso, infatti, il legislatore, quando predispone il rinvio, conosce già le norme che ne costituiscono l’oggetto; la scelta del comportamento criminale, dunque, rimane sostanzialmente nelle mani legislatore.
Sorgono, invece, fondati dubbi di legittimità costituzionale della norma penale in bianco che operi un rinvio a regolamenti o provvedimenti dell’autorità amministrativa futuri. In questa ipotesi sarebbe l’atto normativo di fonte sublegislativa ad individuare in concreto la condotta criminale della norma, violando così il precetto costituzionale contenuto nell’art. 25 II cost.
Si ritiene peraltro che non si possa parlare di norma penale in bianco quando essa rinvii a singole prescrizioni concrete ed individuali, di volta in volta emanate dall’autorità competente perchè esse, non avendo carattere generale ed astratto, non svolgerebbero alcun ruolo precettivo nella descrizione dell’illecito.
Secondo alcuni autori la norma penale in bianco non violerebbe il principio di riserva di legge perché gli atti sublegislativi ai quali si richiama non costituirebbero una fonte integratrice del precetto. Il precetto, infatti, sarebbe contenuto interamente nella disposizione penale non rappresentando altro che l’ordine di obbedire all’atto sublegislativo richiamato (teoria della c.d. disobbedienza come tale).
Sta di fatto che ove si volesse attribuire alla riserva di legge in materia penale carattere assoluto non si potrebbe non ravvisare l’incostituzionalità delle norme penali in bianco.